Bambini che affrontano la morte

“Dimmi che non morirai mai!”

I bambini hanno paura della morte perché per loro è essenzialmente sinonimo di abbandono. Significa separazione dal loro mondo, dagli affetti, dai loro punti di riferimento.

morte Erlbruch

Una ragazzina di 11 anni si ritrova da una settimana all’altra con una diagnosi di tumore incurabile. Attorno a lei, i genitori non sanno come andare avanti, perché devono fronteggiare l’evento più doloroso e innaturale che esista: assistere alla morte di un figlio. Attorno a lei, gli amichetti non sanno come comportarsi, perché faticano a comprendere cosa stia succedendo, perché trovano che spesso gli adulti di riferimento non siano in grado di affrontare questo evento insieme a loro, perché provano emozioni negative che sovente non sanno se o come esprimere.

 

Il tema della morte sia pressoché onnipresente al giorno d’oggi: da i mass-media ne parlano in continuazione (o perché sono notizie vere di incidenti e guerre, o perché è l’ennesima serie televisiva), dall’altro si fanno intensi sforzi per allontanarne anche solo l’idea (si fa di tutto per allungarsi la vita, e gli anziani muoiono in casa di riposo). Aggiungiamo che il sapere ipotetico della scienza non è in grado di rispondere a domande esistenziali su quello che succede dopo la vita, e che la dimensione religiosa/fideistica è sempre più defilata nelle nostre vite. Eppure, sembra molto diffusa la pratica di tenere lontani i bambini dall’idea della morte, perché potrebbe essere una fonte di turbamento. Questo si traduce facilmente in un vero e proprio evitamento del discorso, che tuttavia non fa che aumentare l’effetto negativo: eludere il tema si traduce immediatamente in un aumento dell’angoscia del bambino. Come per qualsiasi altra domanda che un piccolo pone a un adulto, l’assenza di una risposta non seda la curiosità, ma mette in moto ulteriormente l’immaginazione infantile, che però a questo punto si trova a non avere limiti. E quindi si espande a dismisura. Un bambino lasciato solo con le sue domande si sente indifeso, e i suoi mostri possono diventare minacciosi fino all’insopportabilità.

“Dimmi che non morirò mai!”

Qualcosa di cui è naturale avere paura, se diventa incomunicabile all’interno di una relazione di fiducia genera invece angoscia, e la differenza è sostanziale. Mentre la paura ha a che fare con la percezione di un pericolo reale, l’angoscia proviene dal mondo interno, può essere pervasiva e dilagante. Avere paura permette di attivare le risorse per affrontare e controllare la situazione, mentre l’angoscia può essere annientante, mancando completamente la persona punti di riferimento.

A seconda dell’età che hanno, i bambini sono in grado di comprendere delle cose diverse a livello cognitivo.
Tendenzialmente, si possono considerare diverse fasi, che dipendono molto dalle caratteristiche del singolo bambino e dalla cultura in cui è immerso:
• 3-5 anni: la morte è considerata come un processo reversibile, cioè non definitivo.
• 6-9 anni: l’immaginario infantile è in questo periodo fisiologicamente abitato da mostri, fantasmi e scheletri (la paura del buio e gli incubi notturni sono tipici); ma si tratta comunque di personaggi che il bambino sa essere immaginari, e che quindi sono esorcizzabili. Secondo alcuni autori, dai 7 anni il bambino accede all’idea della propria mortalità, che associa facilmente al dolore fisico.
• progressivamente dagli 8 anni, e comunque tra i 9-12: la morte arriva a essere concepita come un evento irreversibile; vi è quindi la consapevolezza di un destino che accomuna tutti gli esseri viventi.

Quando Michela aveva 8 anni è morta Kira, la cagna che aveva sin da quando è nata: è stata molto dura per lei. Una delle cose che abbiamo deciso di fare insieme è stato decorare una lanterna volante con messaggi e disegni per Kira, da parte di ogni membro della famiglia. Poi abbiamo aspettato il buio e siamo andati insieme a farla volare. Credo che per Michela sia stato fondamentale dare forma a quello che provava, condividerlo con la sua famiglia, osservare la sofferenza degli altri (diversa dalla sua, ma non per questo meno intensa), potersi immaginare una Kira da qualche parte nel cielo che ricevesse i nostri messaggi.

lanterna volante

Se un adulto è in grado di immaginare la morte come un evento certamente doloroso, ma di fatto ineludibile, e se è in grado di parlare di quello che sente, allora anche un bambino potrà trovare accoglienza per le proprie sensazioni.

Ormai, dentro le famiglie e spesso anche negli altri luoghi affettivi che il bambino frequenta (ad esempio la scuola) è diventato talmente difficile parlare di certe cose che esistono dei veri programmi di “death education”: percorsi esperienziali che aiutino a diventare consapevoli dei propri limiti e a mettere a frutto le competenze necessari per affrontarli. E il limite più stringente di tutti è certamente dato dal nostro essere mortali.
L’educazione è primaria quando si affrontano in anticipo gli strumenti per elaborare e gestire gli eventi, secondaria quando la morte è annunciata o prossima, terziaria quando l’evento luttuoso si è già verificato. 

Ma non suona strano doversi rivolgere ad altri, ad esperti, per affrontare qualcosa che fa intrinsecamente parte della nostra stessa vita? Potrebbe sembrare strano, ma l'importante è rendersene conto, ed eventualmente chiedere aiuto.